Gas intestinali sul luogo di lavoro, scatta la legge anti flautolenza: “è mobbing e stalking”

Un caso recente pone a tutti quanti una dirimente questione: può un disturbo intestinale essere utilizzato come strumento di mobbing?
Quando si pensa al mobbing sul luogo di lavoro si possono immaginare numerosi scenari come rappresentativi di questa sottile ed insidiosa forma di violenza persecutoria nei confronti di un collega.
Al fine di emarginare e spingere un lavoratore poco benvoluto a dimettersi generalmente si sfruttano diverse soluzioni, tutte quante assai poco piacevoli: rimproveri e richiami costanti, spesso anche ingiustificati; continue minacce di licenziamento; isolamento sul luogo di lavoro; negazione di ferie, permessi ed altri benefit aziendali; battute ed insulti, anche in pubblico; demansionamenti e dequalificazioni.
Dal mobbing, come è noto, ci si può difendere, anche se non esiste, allo stato attuale, una legge specifica ad esso dedicata. Il tema è, sempre, quello di riuscire a provare l’effettiva volontà, del capo e/o dei colleghi, di spingere il “mobbizzato” a dare le dimissioni.
Sì, perché tutto questo non ha niente a che vedere con la violenza fisica, la quale come è ovvio lascia sempre segni evidenti e, pertanto, prove certe. Qui si ha piuttosto a che fare con sottili forme di crudeltà psicologica, alle quali non tutti reagiamo allo stesso modo e che sono assai difficili da provare.
Un caso recente
Ha fatto recentemente scalpore il caso di una dipendente RAI la quale ha denunciato i suoi superiori per mobbing e stalking alla Procura della Repubblica di Roma, convinta di aver subito ripetute umiliazioni a causa di alcuni attriti professionali.
Le conseguenze di tali screzi sarebbero state il demansionamento professionale della giornalista e – qui sta il fatto decisamente nuovo ed inusuale – l’isolamento di questa in una stanza, condivisa – ahilei! – con un collega affetto da gravi problemi di flatulenza intestinale. Una situazione a dir poco spiacevole, in effetti.

Come è andata a finire
Ora, è chiaro che una situazione del genere, a chiunque capiti, non può lasciare totalmente indifferenti. La dipendente RAI ha cercato di dimostrare che la sua ansia e addirittura una patologia di tipo cardiologico (fibrillazioni) sarebbero emerse a seguito di questi comportamenti volti ad umiliarla, ma il tribunale ha stabilito il “non luogo a procedere”.
Ma, a parte il caso specifico, che non ha visto riconosciuta la violenza, la questione del “mobbing olfattivo” è effettivamente una cosa che non deve essere sottovalutata. Sicuramente difficile da dimostrare – come sempre – la volontà persecutoria dei colleghi, ma senza dubbio costringere una persona a convivere per le sue otto ore di lavoro quotidiano con uno “scoreggione” seriale è assolutamente da considerarsi una delle peggiori forme di crudeltà psicologica che si possono immaginare.